Vanni Pucci è certamente il poeta più rappresentativo della poesia siciliana del ‘900. Siciliano, profondamente attaccato alla sua terra, è stato un appassionato cultore del suo dialetto, ed in questo dialetto ha dato il meglio della sua produzione poetica.
In età giovanile scrisse Amuri dissi, raccolta di poesie in vernacolo edita nel 1903 che Giuseppe Pipitone Federico definì la "rivelazione di un singolare temperamento di poeta" e che gli procurò l'altissimo onore dell'iscrizione nella Storia Letteraria d'Italia. Essa comprende anche un poemetto di ispirazione bucolica (pastorale), Titiru, del quale Giovanni Verga scrisse "permeato di bellezza e di forza greca".
Nel 1948 pubblica Favole, sonetti, sempre in vernacolo, da lui illustrati e raccolti dal figlio Egidio. Di chiarissima fama, vivamente apprezzati da quanti amano lo schietto umorismo e da quanti conoscono la bellezza e la potenza espressiva del nostro dialetto, gli valsero l’appellativo di “Trilussa siciliano”. Dotato, infatti, di acuto spirito di osservazione e di eccezionale vena umoristica, il Pucci sa dare nei suoi sonetti (molti sono ancora inediti!) vita e parole agli animali e alle cose per rivelare agli uomini i loro difetti e le loro debolezze.
Il Poeta Ignazio Buttitta lo annovera tra le persone con le quali manteneva una corrispondenza.
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